Natale è un periodo dell’anno in cui, a livello collettivo, si riattivano immaginari e racconti che affondano le proprie radici nella tradizione, nella storia e nel mito. L’immagine classica di Babbo Natale, con la sua barba bianca, l’abito rosso, il sacco pieno di doni e la slitta trainata dalle renne, domina la scena dell’immaginario natalizio in gran parte del mondo occidentale. Ma se proviamo ad andare oltre la superficie luccicante di questa figura, possiamo scorgere una serie di questioni legate all’identità , ai ruoli di genere e alla rappresentazione simbolica che questo personaggio incarna.
La prima domanda che emerge, talvolta sottovoce, è: perché Babbo Natale è sempre presentato come un uomo anziano, bonario, rassicurante e generoso? Perché i ruoli di accoglienza, di cura e di distribuzione dei doni – azioni che potrebbero richiamare a un principio femminile di nutrimento e protezione – sono stati storicamente incarnati da una figura maschile? Che tipo di operazione culturale ha permesso di rendere così forte e consolidata questa icona, sino a farla apparire eterna, immutabile e priva di alternative?
Consideriamo la storia del personaggio. Babbo Natale, nella sua accezione moderna, si è sviluppato a partire da figure pre-cristiane, come quelle legate al culto di Odino, per poi fondersi con la figura di San Nicola di Myra, un vescovo generoso e protettore dei bambini. L’immaginario popolare, nel corso del tempo, ha assorbito influenze diverse, fino a consolidare l’immagine che conosciamo oggi, soprattutto grazie alla letteratura anglosassone, alla pubblicità (si pensi alla Coca-Cola negli anni Trenta del Novecento) e ai media contemporanei. Il risultato è un uomo anziano, dall’aspetto paterno, che incarna – almeno in linea teorica – tutti quei valori positivi e inclusivi che associamo al Natale: bontà , larghezza di cuore, disponibilità verso gli altri.
Eppure, questo personaggio, apparentemente neutro, è tutto fuorché immune da dinamiche di genere. In una società che per secoli ha relegato le donne a ruoli domestici, legati alla cura della famiglia, alla crescita dei bambini e alla preparazione dei pasti, è significativo che la distribuzione universale dei doni – una pratica intimamente connessa all’idea della cura collettiva – sia stata esteriorizzata e affidata a una figura maschile. Babbo Natale, nell’immaginario collettivo, non cucina i biscotti, non rammenda calze, non accudisce bambini: lui viaggia, solca i cieli notturni, pianifica itinerari, consegna regali. È l’azione esterna, l’espansione verso il mondo, a contraddistinguerlo. Allo stesso tempo, la sua bonarietà si differenzia dalla classica mascolinità assertiva e competitiva: è un uomo gentile, sollecito, non violento. In lui, paradossalmente, si concentrano tratti socialmente codificati come “femminili” (la cura, l’attenzione agli altri, la generosità ) ma incarnati da un uomo, e quindi trasfigurati in una dimensione quasi sacra, che trascende il quotidiano.
Da alcuni anni, nel contesto di riflessioni più ampie sui temi dell’uguaglianza di genere, emergono domande provocatorie: perché non inventare figure femminili equivalenti a Babbo Natale? Perché non mettere in discussione la sua iconicità , mostrando che l’equazione “generosità natalizia = uomo anziano” non è scritta nelle stelle ma in una costruzione culturale? Ci sono tentativi, nel mondo del cinema, della letteratura e dell’illustrazione, di proporre alternative: personaggi femminili che si fanno carico della distribuzione dei doni, fate di Natale, oppure ruoli condivisi tra uomo e donna. Tuttavia, queste figure restano spesso marginali e non riescono a scalfire l’egemonia simbolica del “Signore del Nord”.
Riflettere su Babbo Natale da una prospettiva di genere non significa certo demonizzare la tradizione o spazzare via un simbolo caro a milioni di persone. Significa piuttosto aprire uno spazio di pensiero critico, riconoscere che gli immaginari, anche quelli più apparentemente innocui, hanno un peso nella costruzione del senso comune, nella definizione di ciò che è normale, naturale, giusto. La questione non è chi dovrebbe consegnare i doni, ma come rendere più elastica, fluida e inclusiva la nostra idea del Natale. La festività , con tutto il suo carico di significati – dall’inclusione all’accoglienza, dalla generosità alla speranza – può essere occasione per un ripensamento: non è forse il momento di riconoscere che questi valori non appartengono a un solo genere, a un solo corpo, a un solo volto?
In molte parti del mondo, già esistono tradizioni natalizie differenti. Per esempio, in alcuni Paesi del Nord Europa, la figura di Gesù Bambino o dei Nisser, minuscoli folletti, accompagna o sostituisce Babbo Natale. In alcune culture, i doni arrivano da personaggi femminili o da creature prive di connotazione di genere. Questo pluralismo di figure natalizie dovrebbe ricordarci che il nostro “vecchio con la barba” è frutto di un incrocio storico e culturale preciso, non di una legge immutabile. Possiamo lasciarci ispirare da queste alternative per proporre un racconto nuovo, più inclusivo, in cui l’importanza di dare e ricevere sia sganciata da un canone identitario rigido.
Un modo per arricchire la narrazione potrebbe essere quello di affiancare a Babbo Natale personaggi femminili altrettanto centrali, non più relegati nel backstage del suo laboratorio, ma attivi e protagonisti nell’incontro con i bambini e le famiglie. Oppure presentare figure che, come alcune sperimentazioni narrative già suggeriscono, incarnino in modo fluido i valori natalizi: figure non binarie, creature magiche o umane che si impegnano a portare gioia, senza che il loro genere sia un attributo rilevante. Questo non significa cancellare il Babbo Natale che conosciamo, ma permettergli di convivere con altre possibilità narrative, offrendo a chi celebra il Natale la libertà di scegliere tra diverse versioni del dono, dell’affetto, del calore umano.
Il fulcro della questione sta nel comprendere che la tradizione è viva solo se si rinnova, se si interroga, se diventa terreno di scambio e riflessione. Babbo Natale, con la sua figura rassicurante e conosciuta, potrebbe diventare un simbolo ancora più forte e significativo se accogliesse una pluralità di narrazioni. In fondo, il Natale è una festa d’inclusione, e non c’è inclusione senza considerare i diversi modi in cui possiamo incarnare la cura e la generosità . Esserne consapevoli ci permette di rendere le festività più consone alla complessità dei nostri tempi, capaci di parlare al cuore di tutti e tutte, a prescindere da ruoli, corpi e identità di genere. In questo modo, potremmo davvero dire che a Natale siamo tutti, e tutte, non più solo “più buoni”, ma anche più liberi di immaginarci differenti.